Cronisti per caso: Visita alla favela

Con il reportage di Max dalla più grande favela di Rio de Janeiro continua l'iniziativa Cronisti per Caso, lo spazio dedicato alle vostre cronache dal mondo. Se avete assistito in viaggio a un evento speciale, se volete raccontare luoghi e popoli con taglio giornalistico, se quando siete in giro per il mondo sul vostro taccuino si accumulano...
Turisti Per Caso.it, 17 Nov 2006
cronisti per caso: visita alla favela
Con il reportage di Max dalla più grande favela di Rio de Janeiro continua l’iniziativa Cronisti per Caso, lo spazio dedicato alle vostre cronache dal mondo. Se avete assistito in viaggio a un evento speciale, se volete raccontare luoghi e popoli con taglio giornalistico, se quando siete in giro per il mondo sul vostro taccuino si accumulano dati, impressioni e informazioni, allora scriveteci! Basta mandare una mail nel Posta e Risposta con il testo del vostro reportage e l’oggetto “Cronisti per caso”. I migliori articoli arrivati in redazione avranno sul sito lo spazio che meritano.

Buona lettura!

Visita alla favela – parte A

Entriamo nella famigerata Favela Rocinha da Rua Appia, l’unico accesso. Alla base stanno sornioni i mototaxi, ad aspettare un passeggero. Buttando l’occhio attorno noto però che ogni sguardo è vigile, attento. L’atmosfera scanzonata ma attenta che ci accompagna nelle spiagge più affollate di Rio de Janeiro qui si tramuta in diseredata e sospettosa. Ci inoltriamo a piedi per un po’. Appena conosciuto Bouguinho sapevo che prima o poi avrei fatto quella visita negata ai comuni turisti. Ho portato la macchina fotografica ma ho promesso che non l’avrei tirata fuori. Anzi il marsupio lo tiene lui, dice che è più sicuro. Ogni venti metri Bouguinho saluta qualcuno, lui sa che non deve nascondere nulla ai controllori armati di ricetrasmittente e non solo quella. Stiamo camminando per quello che potrebbe essere un mercato di qualsiasi paesino arroccato sulle pendici di una montagna, gente immersa in faccende poco impegnate, donne che miagolano in portoghese, bambini in ciabatte, uomini che adocchiano appoggiati a un bancone. Ogni venti o trenta metri ci avviciniamo a qualcuno e vengo presentato, “il mio padrone dall’Italia”, a gente che ti guarda e non sorride. Uno ha lo sguardo di chi spegne gli incendi pisciandoci sopra. Quello controlla la Bocca, mi spiega, e suo fratello ha il “Magazzino”. Ah, faccio, come se fosse tutto chiaro. Mi chiedo se sono veramente suoi amici o se sono solo sospettosi della mia presenza nel tempio dello spaccio e dell’illegalità. Passa qualcuno con in mano una pistola o un fucile. Ad un certo punto udiamo qualcuno che vende “polvere” gridando “pò da 5, pò da 20”, mi volto ed ed è uno con una divisa della polizia, con un mitra a tracolla. Dà l’impressione di essere in mezzo alla guerriglia. “Meno male che stiamo protetti dalla forza pubblica”. No, dice Bouguinho, qui la polizia non entra. “Ma quello…” Quello ha ucciso un poliziotto e poi si è messo la sua casacca. “Ah, penso, meno male che sono un single in cerca di avventura. Se fossi una coppia sarei rimasto a bere acqua di cocco a Ipanema.

Passata la ressa ci inoltriamo tra spaccature laterali. Un intrico di viuzze larghe appena un metro, una via di mezzo tra una Venezia segreta e la Medina di Knes, ma con ripide salite e discese sdrucciolevoli, in mezzo a gradini sconnessi, terriccio e rigagnoli d’acqua. Alle parti si apre qualche negozietto improvvisato, solo un paio di metri quadrati zeppi di frutta, caramelle, birre, rubinetti e cartelle del lotto. Mi tornano in mente i Souk arabi, ma questo è meno turistico. I cani sembrano tenere le orecchie ancora più basse. Si respira l’aria del proibito, del pericoloso. Sono le tre del pomeriggio. Scendiamo una scala di cemento e Bouguinho batte forte ad una finestra con inferriata. Ci apre la sua ragazza, stropicciandosi gli occhi. Così conosco la sua ragazza, Beta e Camila, sua “menina” di cinque mesi. Vivono in due stanze ricavate tra gli interstizi di altre abitazioni, saranno venti metri quadrati, ma non mancano il Dvd e tre o quattro cellulari clonati, sparsi sui divani. Mi mostrano l’ultimo, grande come un accendino, illuminato come un albero di natale bonsai e si vantano delle offerte del nuovo operatore telefonico. La telefonia fa vittime anche tra gli emarginati del terzo mondo, penso. Ma evito di dirlo. Saliamo una scala che sembra portare dentro le case delle sorelle e dei cognati e sbuchiamo su una veranda con vista. Rocinha si schiude davanti ai miei occhi, un fungaio di costruzioni improvvisate in spregio ad ogni regola urbanistica. Da lì mi è consentito tirare un po’ di foto che faticano ad arrivare alla baia di Sao Conrado, tra i riccastri giù a valle. Un po’ di sorrisi, poi un po’ di baruffe con la ragazza che sembra dormire sempre e non ha messo niente in pentola per il pranzo. Sono quasi le quattro. Alex mi dice usciamo e ce ne andiamo fuori in una tavola calda. E’ sempre così, sbuffa, io mi arrangio per portare a casa i soldi e lei non fa niente tutto il tempo. Il cosiddetto lavoro attuale consisterebbe nel dare una mano a uno studio di avvocato giù nel Centro, tre volte alla settimana. Ma dopo due mesi già parla di lasciarlo. Si vive così a Rocinha, ma anche a Rio tutta, o in Brasile in genere. Bassa percentuale di lavoro, molta improvvisazione, euforia solo per le onnipresenti occasioni di svago, in un clima che sembra sempre caldo e rilassato. Mangiamo due controfiletti accompagnati con riso maluco cioè pazzo, birre, guaranà e caffè, cinque euro in tutto, e avanza un sacchetto di roba da portare a casa per la sera. Mi guardo intorno e vedo la strada affollarsi per la sera, la gioventù che si sta appressando in strada ispira poca cordialità, ma la mia sete di informazioni vorrebbe tirare una foto. Assolutamente meglio di no. Dopo pranzo gli vien voglia di fumare. Non sigarette, ovvio. Adesso andiamo in un posto, c’è una terrazza tranquilla. Dopo un altro periplo di viuzze sbuchiamo in un basamento di una casa non costruita, di fronte lo scivolo della montagna dove cascano spazzature e liane, tra le costruzioni inventate della favela, e un albero enorme, vecchio e intoccabile. Dà l’idea di un luogo interrotto, e non mi viene in mente di domandare perché.

Bouguinho si accende uno spinello di Maconha, dopo un minuto dalle scale sale uno che conosce, parlano e ridono, la cicca passa di bocca in bocca, l’amico fa un tiro e la passa a me. No, lui non fuma, fa la mia guida, lui è il mio padrone italiano. L’altro mi guarda sorpreso. Pensavo fosse brasiliano, dice. E’ un complimento, per le poche battute in portoghese che ci siamo scambiati. Beh, non sono vestito da turista, questo lo sapevo da me, non mi avrebbero permesso di avventurarmi così dentro. Passa un abitante seguito da una ragazza dall’età imprecisabile. Loro ridono e mi raccontano una storia di numeri. Ha il solito senso, qualsiasi cosa significhino i numeri. Ci salutiamo e ritorniamo sulla strada, per un altro percorso. Devo stare attento a dove metto i piedi, è come una foresta dentro la città. Come nella foresta amazzonica devo guardare per terra a evitare che mi giri la testa con tutte quelle cose strane, troppo vicine, angoli e pareti che si sporgono come liane rampicanti, e mettere lo sguardo fuori fuoco. Mi aiuta a non guardare le persone negli occhi, forse è un bene.

Potevo restare nella via principale, a fumare la maconha, dice Bouguinho, però se arrivava la polizia a fare una retata, io so come svignarmela, ma tu non so. Quindi è stato meglio andare in quel luogo, era più nascosto. Grazie della cortesia.

Visita alla Favela – Parte B

È l’imbrunire. Il sabato sera è sabato sera dovunque, quindi anche nella Favela Rocinha si organizzano divertimenti. Ci sarebbe una festa, in cima. E’ il compleanno del Dono, il padrone della Favela, il capo dei trafficanti. Sulla Rua Appia saliamo a cavallo di due mototaxi e ci inerpichiamo in alto, sempre più in alto. Tornanti stretti come una molla si stringono attorno ai forati a vista, alle ciabatte e ai piedi scalzi di questa umanità priva di autoironia e autocompiacimento. Le storie del mio confidente Bouguinho sulle leggi che regolano la favela mi riportano alle crudeltà medioevali, ma intorno si respira una certa forma di ordine condiviso, l’accettazione di una condizione che sopravvive al gradino sociale più basilare. Non si ruba all’interno della favela, non si fa del male all’interno della favela. Uno sgarro, se il Dono lo permette, è punito in modo esemplare. Gli amici di un amico sono stati uccisi a colpi di pistola perché sospettati di aver rubato biancheria stesa ad asciugare. Qualcuno col vizio pesante ha rubato denaro all’interno di una casa e gli hanno tagliato gli arti con la sega elettrica, sul tavolo da ping pong improvvisato in strada, davanti agli occhi dei bambini. Una lezione che vale più della licenza media, all’interno della favela. Mi guardo intorno e i servizi ci sono tutti, supermercati e agenzie bancarie comprese. Manca qualsiasi riferimento alla moda, quindi manca il sovrappiù. Ma vedo un centro internet e una pizzeria. Arriviamo in cima, smonto da quel cammello che puzza di benzina e pago un real. Ci sediamo in un bar sul marciapiede, ed aspettiamo che la serata si animi.

Dopo un poco le sedie sul nostro tavolino di strada si sono moltiplicate, come le bottiglie sul tavolo. Ogni tanto arriva qualcuno ed è un altro giro di strette di mano e di birre. Passano il biondino magro di colore, maglietta bisunta e un buco di pallottola sulla guancia da quindicenne, però tutti ci parlano insieme. Arriva il ragazzone dai capelli rossi, suo fratello è morto la settimana scorsa. Le due ragazze della biglietteria della festa sono uscite a fare una pausa, si guardano intorno sapendo cosa prendere e cosa lasciare, immancabile sigaretta tra le dita. La cosa più strana di questa gente sono gli sguardi. Hanno tutti centinaia di anni. Come se non dormissero mai. Si fanno supposizioni sull’arrivo del capo, se andare già alla festa, entrata dieci real, le ragazze solo quattro. “Però poi il Dono offre da bere a tutti.” Eh, già è la sua festa, il compleanno del Capo. Poi una donna più posata, lo sguardo che conta. E’ una che prepara le dosi, mi spiega Bouguinho. Avevo già capito.

Mi chiedono se sto comodo sulla sedia, se sono stanco, ma non se voglio tornare a casa.

Io sono calmo come il laghetto di Calalzo. E’ uno di quei rari momenti in cui so cosa conti quell’attesa. Lo sapevo prima e lo so ora che sono qui. Sanno che non me ne torno a casa prima di aver incontrato il Dono.

Aspettiamo dalle nove a mezzanotte, poi paghiamo le birre un po’ per uno. Onorevole, credevo avrebbero lasciato pagare tutto a me. Entriamo nella quadra, una specie di balera o palestra con le gradinate, dove la musica già spacca i timpani, in un mix di hip hop e commerciale funky latino. Anche lì, solita litanìa delle presentazioni, dopo un po’ devo chiedere che la smettano di parlarmi all’orecchio, che per capirci sopra il frastuono rischiano di farmi saltare i timpani.

La gente si dimena in tutti gli angoli, si passano bicchieri di guaranà, fanta, birra e chissà che schifezza di alcolici. Poi vedo molti che aspirano da delle boccette di plastica, sembra la moda della stagione. E’ Lolò, mi dicono, una specie di solvente.

Faccio finta di ballare e aspetto ancora, ormai sono le due. Dopo mezzora inizia un trambusto sul ballatoio della stanza privata che domina la sala. Qualcuno parla al microfono sopra la musica. Un benvenuto all’italiano. Il rosso mi fa cenno di seguirlo. Passiamo una serie di stretti corridoi bui che rasentano i muri, superando capannelli di controlli, e arriviamo alla porta della Stanza, dove una fila di persone vocianti chiede udienza. Le guardie armate hanno il loro daffare per tenere tutti indietro. Il rosso grida qualche nome, e la guardia alla porta lo nota e gli fa cenno di avvicinarsi: si scambiano un po’ di urla e quello mi butta gli occhi addosso, come a cercare di riconoscermi, poi punta il dito e dice tu vieni. Mi infilo tra i corpi che aspettano e mi strizzo attraverso la porta. Aldilà la stanza è illuminata e piena. Donne, bambini, ragazzine, gerenti, guardie armate, omoni grossi e tutti con in mano una bottiglia, un bicchiere o una pistola. Qualcuno balla, guardando giù dal ballatoio, verso la sala gremita spaccata dai faretti colorati. Il rosso mi presenta ad ogni colonna, io stringo le mani e chiedo sempre, Tutto Bene? Con un sorriso beato alzando il pollice alla maniera brasiliana, distribuendo intorno una placida incoscienza che spero mi aiuti a portare a casa la pellaccia. Tutti mi vogliono offrire una bevuta, una fumata, una tirata. Ma io non fumo non bevo e non tiro e questo li lascia con un’espressione perplessa. Alla fine troviamo Biu, il festeggiato, il Capo dei capi. Attorno a lui quattro energumeni vestiti male che lo fanno sembrare ancora più protetto, nella sua giacchetta e magliettina. Sembra il ritratto di un Napoleone giovane, anzi di un Al Capone coi capelli ossigenati. Adagia su di me uno sguardo stressato e intelligente, che sembra osservare un mondo che rotola in fretta giù dalla vita e mi stringe la mano dicendomi “a vontade”, a disposizione, forse mi crede un personaggio della mala italiana. Sorrido. E anche a lui faccio il pollice alto, “Parabens”, Auguri, mentre mi dà una manata sulle spalle e se ne va, a condividere bevute e altro chissà, coi suoi luogotenenti, gerenti e vapori. La vita va presa come viene, ognuno a modo suo, e mi domando se qualcuno ha avuto come me la sensazione che in quell’incontro due mondi separati si siano toccati senza ragione apparente. Se io lo accetto, perché non lui? Domani i giornali racconteranno della ennesima invasione a Vidigal, la favela nemica, che costerà la vita a dodici trafficanti. Ma io, oggi, posso raccontare di aver conosciuto il Dono di Rocinha.

MAX



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